Un viaggio a ritroso dentro e fuori di sé: camminare e conoscere il mondo attraverso gli occhi di Porpora
Una comunità di venti persone si riunisce davanti all’autostazione di Bologna e inizia a mettersi in movimento, in un’azione che si concluderà solo cinque ore dopo. Perdendosi dentro a questa struttura, un luogo in stato di semiabbandono tenuto vivo da uffici e spacci di moda, entriamo in una stanza vetrata che affaccia sul traffico di autobus che scorre sotto le nostre gambe, dove da cornice troviamo delle api morte. Dalle nostre spalle arriva la voce di Porpora Marcasciano che ci invita a meditare sul senso del viaggio. Tutto d’un tratto, la vediamo comparire nel piazzale sottostante con una maglietta fucsia, scendiamo in strada e raggiungiamo Porpora che ci attende, dandoci le spalle. Da quel momento inizia Porpora che cammina, spettacolo itinerante di DOM (Leonardo Delogu e Valerio Sirna) che è un viaggio nel tempo della vita di Porpora e della vita della città di Bologna, come se la sua storia fungesse da eco nelle vicende della città.
Il semplice indicare e volgere lo sguardo di Porpora ti porta a riscoprire con occhi diversi un luogo che pensavi di conoscere. All’arrivo in piazza Verdi, Porpora indica un punto sul cantiere del teatro comunale e ci racconta che anche i luoghi di arte e cultura sono scenario di tragedie, come per esempio gli scontri degli anni ‘70 e ’80. Da questi semplici ma violenti dettagli, veniamo travolti da un cambio di direzione epocale e culturale, e capiamo che la drammaturgia sta andando verso una direzione: stiamo ripercorrendo i luoghi della tragedia dell’11 marzo 1977, l’ultimo itinerario che fece il giovane militante Francesco Lorusso prima della tragedia. Quando Porpora entra dentro al Museo di cere anatomiche di via Irnerio, ci mostra la miccia dove è nato lo scoppio di quel giorno, ma non solo: guardando le statue di cera notiamo come il pregiudizio sul diverso sia così radicato nella scienza e quale lotta deve essere per i trangender sovvertire ancora oggi questo pensiero. Non a caso, usciti dal museo ci dirigiamo in via Mascarella, Porpora posa in silenzio un fiore davanti ai sette fori di proiettile che la polizia ha scagliato contro Lorusso e prosegue il cammino.
Allontanandoci dal centro storico in direzione Bolognina, proprio dietro l’angolo Porpora incontra la sua cara amica Nicole De Leo. Si salutano e chiacchierano iniziando a camminare insieme, come una normale scena di vita quotidiana. Infatti, come se niente fosse, entriamo dentro un supermercato e usciamo senza comprare niente. Mentre Porpora fa il suo normale percorso quotidiano, Inizia a farsi presente l’inadeguatezza, il sentirsi intrusi nel percorso quotidiano rappresentato da Porpora. Questo stato diventa maggiormente enfatizzato quando si scontra con il volto interrogativo delle persone intente a guardare un gruppo di individui che cammina compatto dietro a una persona, a dovuta distanza, in silenzio, che segue esattamente i suoi movimenti, quando questa persona sembra non essere minimamente interessata al fatto di essere seguita. Viene percepito dall’occhio esterno come se fosse un qualcosa non immediatamente riconducibile a una performance. Questo aspetto sociale e sperimentale ci ha aiutato a capire meglio come più si osserva, e più si viene osservati. Un grandissimo cortocircuito sociale.
Porpora saluta la sua amica mentre iniziamo a dirigersi in direzione fiera. Lo spettatore inizia ad accorgersi sempre di più delle stranezze che vengono a comparire lungo il tragitto, come una donna vestita da marziano, o forse da apicoltore, che danza in un angolo; un pallone blu che vediamo rotolare in autostazione e poi in un campetto da calcio, tende da campeggio che troviamo in Piazza Scaravilli e nei pressi di uno studentato che fungono da critica al servizio abitativo studentesco ormai in crisi da anni nella città. Lo spettatore inizia a domandarsi se certe coincidenze che sta vedendo facciano parte o meno della performance.
In uno spazio verde sentiamo la voce di Porpora venire da casse vaganti, rendendo il suono spazializzato e tridimensionale e portandoci a viverci dentro, mentre ci dirigiamo in direzione del palazzo della Regione Emilia-Romagna. Passando casualmente davanti al presidente Bonaccini in preda a un’intervista, le parole di Porpora si fanno sempre più dense e cariche di significato: frasi come «La vita può essere capita solo all’indietro ma va vissuta in avanti» di Kierkegaard e «Non era previsto che sopravvivessimo» di Audre Lorde (verso di un noto componimento dal titolo A litany for survival) si scagliano contro il viandante, portandolo in uno stato di forte commozione: sto conoscendo una vita, sto conoscendo una città, sto conoscendo me stesso.
Porpora sfreccia via a bordo di una macchina. Il pubblico, tramite un taxi, raggiunge Piazza dell’Unità, ma ad accoglierli c’è un corpo diverso, un corpo giovane e atletico (Valerio Sirna) con dei tacchi alti e pantaloncino corto. Ha alcune caratteristiche di Porpora, sembra essere lei da giovane. Seguendo il suo passo svelto, da uno spazio urbano siamo accompagnati in un luogo periurbano. Ci spingiamo là dove normalmente non ci saremmo mai spinti ad andare, scoprendo una natura incontaminata, luoghi e condizioni abitative, dove il nuovo polo universitario sorge a fianco di case popolari occupate da persone al margine: la ricchezza vicino alla povertà. In questo tratto di percorso non ci sono voci e storie ad accompagnarci, ma solo musica, e la canzone dell’episodio “La Monorotaia di Springfield” dei Simpson. Ormai al margine del quartiere Bolognina, veniamo abbandonati nuovamente dalla nostra guida.
Beatrice Bertesi
Terminata la breve pausa in una stazione di servizio, risaliamo a bordo dei taxi. Arriviamo in un luogo non particolarmente connotato e osserviamo un bambino scendere dall’auto di Porpora. Lui ci guida pian piano attraverso un sentiero all’inizio molto ampio, e mentre il sole inizia a tramontare, veniamo accolti dagli insetti che ci circondano, facendoci sentire intrusi a casa loro. Verso dove ci stiamo muovendo? Ascoltiamo il rumore del battito d’ali delle api registrato fondersi con i suoni naturali. Quando sembriamo essere ormai lontani dalle strade cittadine prima attraversate, ci troviamo al cospetto di enormi piloni di cemento che sorreggono l’immensa autostrada Adriatica. Qui semplicemente stiamo e osserviamo, come il bambino suggerisce, una scena surreale. Le luci del tramonto illuminano a stento i performer lontani che si muovono lentamente, quasi in assenza di gravità, e con le loro tute da apicoltori abitano uno spazio sospeso nel tentativo di estendere la loro presenza, insegnando allo spettatore a cambiare prospettiva per riscoprire una natura organizzata quasi fosse una società a sé stante, che esiste nonostante l’invasione antropica dei suoi spazi.
A questo punto qualcosa nel nostro modo di camminare cambia, gli occhi si sforzano di assecondare la luce del crepuscolo e i nostri passi si fanno meno sicuri, ma iniziamo a porci più domande e il nostro incedere si fa più riflessivo. Uno spiazzo infinito si apre dinanzi a noi e immersi nel suono che echeggia tra i macchinari industriali abbandonati, leggiamo su un cumulo di terra una frase: “Il tempo rimane in me”. Il nostro corpo, per sua natura temporaneo, è forse l’unico modo che abbiamo di percepire il tempo? Il bambino corre e sembra divertirsi nell’attraversare questo luogo devastato, quasi post-apocalittico. Oltrepassato il ponte sul fiume, torna a guidare il nostro gruppo Sirna, compagno di giochi perfetto per il bambino, e insieme imbocchiamo un sentiero che si muta rapidamente in terrapieno. Ci rendiamo conto di trovarci in una condizione quasi liminale: alla nostra destra osserviamo le piste dell’aeroporto di Bologna, dall’altro lato i performer che si fanno portatori delle istanze naturali. Qui sembra sempre più esplicita la dicotomia tra il naturale e l’elemento antropico, ma non solo. Il viaggio aereo, espressione di un certo tipo di turismo, si contrappone inevitabilmente a un modo di esplorare il mondo completamente diverso, che spalanca le porte allo slow tourism, sempre più praticato dai giovani backpackers. Arrivati dinanzi al tunnel illuminato e sospeso del Marconi express, ci accorgiamo del riferimento sarcastico simpsoniano alla monorotaia, di cui avevamo ascoltato attraversando il quartiere Navile. La costosissima opera pubblica realizzata a Bologna presentava già in principio diverse criticità, essendo inoltre pensata per i turisti e non per i cittadini bolognesi, poiché non risponde ai loro bisogni e non ne rispecchia le esigenze.
Molti sono gli artisti che fanno da colonna sonora al nostro percorso, da Claudio Lolli con Quello che mi resta, che risuona in ogni ristorante della turistica Via delle Moline, a Nina Simone, da Kae Tempest ai Radiohead che ci accompagnano con la loro Daydreaming preparandoci affrontare il ritorno a una dura realtà, con una nuova consapevolezza. Se allora l’umanità ha davvero raggiunto il punto di non ritorno, come suggerisce il malinconico verso cantato da Thom Yorke, potranno le nuove generazioni ancora sognare di costruire un futuro migliore?
Percorriamo la strada trafficata che attraverso tunnel e rotonde conduce all’aeroporto con ancora molte questioni irrisolte nella mente, ma in uno stato diverso di coscienza. Incontriamo nuovamente Porpora, felici nel rivederla, come se fossero passati giorni dal nostro ultimo incontro, e ormai stanchi e affaticati, la accompagniamo verso un nuovo viaggio. Come un’ape, Porpora prende il volo rappresentando la vita.
Porpora che cammina è un’esperienza percettiva e sensoriale che si rivolge all’essere umano considerato nella sua interezza, dove a uno a uno vengono stimolati tutti i sensi. Un’idea di teatro originale e innovativa che si basa sull’esperienza personale-collettiva degli spettatori, restando attaccata alla pelle per sempre. In cui si diventa attori e spettatori della vita naturale e urbana. Gli artisti sembrano donare, a noi che vi prendiamo parte, un modo per riscoprire il senso della vita: il viaggio.
Letizia De Mase
Questa recensione è frutto del laboratorio di educazione allo sguardo applicato alla danza, a cura di Altre Velocità