Misurare la storia attraverso il corpo. “All’inizio della città di Roma” di Claudia Castellucci
C’è un’atmosfera sospesa e rarefatta quando i danzatori entrano in scena. È un gruppo compatto, unito, una materia primordiale. Entrano camminando all’indietro e tenendosi per mano con le braccia stese in alto, a evocare l’idea di nucleo che in sincrono avanza verso la nascita della vita. Comincia così All’inizio della città di Roma, il lavoro di Claudia Castellucci, frutto di un seminario tenutosi in occasione di BOD/Y-Z.
Gli abiti di scena richiamano la classicità dell’Oratorio San Filippo Neri entro cui si svolge l’azione, eleganti ma allo stesso tempo contemporanei, permettendo così allo spettatore di entrare in empatia coi performer. Una relazione cui contribuisce anche la prossimità di sguardi che oltrepassa la barriera dai loro volti inespressivi. L’incedere ritmico della musica crea movimenti e azioni reiterate in cui lo spettatore sembra quasi smarrirsi alla ricerca di un significato. Ci riaggancia al titolo della performance il gesto quasi meccanico dei danzatori che paiono tracciare il Cardo e il Decumano tra le antiche rovine di Roma. Nei movimenti circolari e cadenzati e nei cenni d’assenso tra le persone, lo spettatore coglie la nascita dei primi legami che compongono una comunità. Come tessere di uno stesso puzzle, ogni performer avanza e indietreggia ritmicamente nell’incontro con l’altro, collocandosi all’interno di una società composita e stratificata in cui stipulare patti e alleanze.
Drammaturgicamente pregnante è il suono, che scandisce ritmicamente l’articolazione dell’azione coreografica: nell’incipit è statico, quasi etereo e ancestrale, e via via si fa sempre più dinamico, aureo-metallico e concreto, quasi di pietra. La costante iniziale si dissolve nel passaggio dalla singolarità alla pluralità e all’alterità, da cui origina la comunità. Rumori acquei danno il via a una lotta fisica, espressione della sete di potere che inimica mortalmente i due fratelli del mito, Romolo e Remo. L’immagine dei corpi distesi e inermi ci riporta con la mente ai cadaveri dei guerrieri abbandonati sui campi di battaglia dove, come animali feroci, gli altri danzatori si scagliano, facendone scempio.
Il rigore dei gesti, l’impersonalità dei volti e i movimenti meticolosamente eseguiti a ritmo musicale, consegnano a chi guarda l’idea di un diritto e di una giustizia inflessibile. Quel diritto che l’essere umano si è trovato a creare delimitando un insieme di regole ben precise per il quieto vivere collettivo. La composizione coreografica mostra come, alla decisione embrionale del vivere in comunità, si anteponga l’idea che la creazione di una società ordinata sia l’unica possibilità per l’uomo di vivere in sicurezza, ma non solo. Singolarmente l’uomo non può nulla, poiché l’individualismo sfrenato non conduce mai alla libertà, ma lo imprigiona in una gabbia di indifferenza, cui può sfuggire solo se trova il suo posto in società.
Nel finale la situazione di sospensione iniziale si capovolge e la performance termina in modo improvviso: i danzatori escono uno a uno, come monadi, e l’immagine del nucleo originario nel finale si fa disfatta. Quel nodo avviluppato in cui si raccoglievano i danzatori si scioglie, e come macerie di un impero ormai in frantumi, restano sole le nostre domande di esseri umani: siamo ancora una società con valori civili? Che importanza ricopre oggi la legge nella nostra esistenza? L’indifferenza nei volti dei performer è forse lo specchio dell’apatia e del disinteresse odierno, nutrito dai cittadini per le decisioni politiche?
Beatrice Bertesi, Letizia De Mase
Questa recensione è frutto del laboratorio di educazione allo sguardo applicato alla danza, a cura di Altre Velocità